“Erano le sei di mattina quando vennero”, dice Casimiro Giacomelli, detto Alfredo, un uomo che si avvia ormai verso i novant’anni, ma che ha ancora un aspetto giovanile e, quel che più conta, la mente lucida. Un uomo che ha perso nell’eccidio nove persone: tre nipoti, due femmine e un maschio, rispettivamente di 2, 7 e 14 anni, la moglie, due nuore, tre figlioli (due femmine e un maschio). Abita in località Uggia di Cintolese, frazione di Monsummano Terme, via del Porto, nel secondo podere delle File della fattoria Poggi-Banchieri, proprio accanto (primo podere delle File) alla famiglia Arinci, anch’essa decimata nell’eccidio.
“Erano le sei di mattina quando vennero – ripete Giacomelli calmo – alla casa Simoni, là nel padule, dove s’era sfollati perché i tedeschi ci avevano mandati via da qui”. “Erano due – aggiunge – e avevano i fucili mitragliatori. Entrarono in casa. Ci saremo stati in trenta, dai Simoni. Noi, gli Arinci e qualche altro. C’erano le donne, i bambini, i vecchi: pochi giovani. Ci fecero uscire e ci misero al muro. Non si capiva che volessero. Non s’era fatto nulla, noi. Stavo discorrendo con uno, un mio amico, anziano come me, quando sento il crepitìo dei fucili mitragliatori e gli urli di dolore”.
E vide il sangue e vide la morte, Giacomelli. Aprì la bocca per dire qualcosa, per implorare pietà per quelli ancora in vita, ma non ci riuscì. Udì un altro crepitìo e un altro ancora. E mentre vedeva i bambini, le donne cadere a terra in pozze di sangue, perforati, sfigurati, maciullati, si chiedeva perché mai lui fosse sempre vivo. Allora pensò che poteva mettersi in salvo se riusciva a raggiungere la porta della stalla.
Due passi, con le gambe fiaccate dal dolore e dall’orrore, e fu nella stalla. Si appiattì in un angolo buio. Un attimo dopo un suo nipotino, il bambino di 7 anni (Pietro) scivolò nella stalla, ferito a morte. Era l’ultimo dei parenti, dei suoi parenti ancora in vita, nella casa. Si chinò su di lui con il cuore straziato, la vista appannata dalle lacrime, le mani tremanti con cui gli sfiorò i capelli arruffati. Il bambino ebbe il tempo di dire. “Nonno, non mi lasciare”.
Il crepitìo era finito. Tutto tranquillo?, si chiese, e stava per uscire, quando, con un boato pauroso, qualcosa crollò alle sue spalle. I tedeschi stavano lanciando bombe a mano per eliminare chiunque fosse all’interno della casa. Allora fuggì per i campi e raggiunse un argine. Vi si nascose con due bambini, due nipoti degli Arinci, che erano riusciti a scappare perché si trovavano al primo piano. S’erano calati dalla finestra di dietro della loro camera che dava sul tettuccio del porcile e avevano preso per i campi senza una mèta: quel che contava era andare lontano da lì.
“Non ricordo quanto tempo rimanemmo là – dice – So solo che fummo scorti da amici che ci portarono alla casa dei Cipollini”. E fa un gesto vago verso il Padule. Poi ci fa vedere il quadro alto, nella parete centrale del salotto, con le foto di tutti i suoi morti, e ha le lacrime agli occhi.
Armando Arinci ha 51 anni. Nell’anno della strage ne aveva 31, era sposato e aveva due bambini: Santi e Giampiero, rispettivamente di sei e un anno.
“Ero scappato nei campi poco prima, perché si era sparsa la voce che cercavano gli uomini. Si diceva che qualcuno si era rivoltato il giorno prima e allora i tedeschi stavano cercando tutti gli uomini della zona per individuare i responsabili”.
Vagò a lungo con il fratello e altri per i campi; poi decisero di dividersi. Armando riuscì a raggiungere la strada, che era ritenuta zona sicura. Fu lì che lo venne a cercare il fratello. “Vieni, torniamo dai Simoni”, gli disse.
“Ma c’è pericolo per noi”.
“No, non c’è più pericolo, ora”.
Lo seguì e quando si trovò di fronte a quello spettacolo straziante rimase come pietrificato. Ma fu un attimo. Si riprese. Aiutato dal fratello, portò a casa, con un carretto i suoi otto morti. I tedeschi se n’erano andati. “Li sistemai tutti su un tavolo, nella sala”. La moglie e i due figlioli, la mamma e i due fratelli minori, la cognata e la zia.
E mentre lui preparava la camera ardente, altri innocenti morivano sotto il fuoco dei fucili mitragliatori, nelle capanne bruciate, nelle esplosioni delle bombe a mano, in quella parte del Padule delimitata con teutonica esattezza.